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Messaggio INPS n°78 del 08/11/2000

 

Oggetto: Associazione in partecipazione - nullità del contratto.

Con sentenza 645/2000, che appresso si trascrive, il Tribunale di Macerata Giudice lavoro ha ribadito l'orientamento già espresso dal Pretore di Macerata con sentenza 18.11.1994 ed, in accoglimento della prospettazione della difesa dell'Istituto, ha dichiarato nulli, sia con riferimento all'art. 1346 sia all'art. 2549 c.c., i contratti di associazione in partecipazione per indeterminatezza (e indeterminabilità) dell'apporto per poi qualificare il rapporto come rapporto di lavoro subordinato, sussistendone le condizioni, e così confermare la pretesa contributiva dell'Istituto.

Si segnala la sentenza perché essa sul filone della precedente appare di evidente utilità nella ordinaria trattazione dei giudizi attinenti la fattispecie e certamente un riferimento nell'attività di vigilanza.

E' infatti fin troppo evidente - perché constatabile nella pratica - che la mancata predeterminazione dello apporto, in sé e per sé fissata come elemento essenziale del contratto tipico nominato (apporto rispetto al quale si struttura la natura aleatoria di esso), assume rilievo essenziale ai fini degli intenti evasivi.

Partitamente, in presenza di altri indizi univoci, potrebbe persino configurarsi con la sottoscrizione in capo al lavoratore una condotta concorrente con quella dell'associante nell'illecito (amministrativo o reato).

 

Sentenza del Tribunale di Macerata n° 645 del 2000

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice del lavoro presso il Tribunale di Macerata nella persona della D.ssa Adriana De Tommaso, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in materia di assistenza e previdenza obbligatoria, iscritta al n. 5422/95 r.g.c. promossa con ricorso depositato il 30/10/95 e vertente

TRA

Fabbroni Alberto rappr. edif. dall'Avv. A. Squadroni e dall'Avv. M. Vallasciani per delega a margine del ricorso, elett. dom. in Civitanova Marche, Via Sabotino, 30;

opponente

CONTRO

Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, INPS, in persona del legale rappr. p.t. rappr. e dif. dall'Avv. I. Pierdominici, giusta procura generale alle liti per Notar Lupo di Roma del 7/10/93, elett. dom. in Macerata, Via Dante, 8;

opposto

avente ad oggetto: opposizione ad ordinanza-ingiunzione

Conclusioni: come da atti introduttivi

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 30/10/1995 Alberto Fabbroni proponeva opposizione avverso l'ordinanza ingiunzione n. 1955/1995 notificatagli dall'INPS il 30/9/95, contenente l'ordine di pagare la somma di L. 3.380.900 a titolo di sanzione per illeciti amministrativi connessi all'omesso versamento di contributi per i dipendenti Cappelli Fabrizio e Zappacenere Daniela nel periodo 13/11/91-6/10/93.

Deduceva l'opponente a sostegno dell'opposizione che, nella delegazione ACI di cui era responsabile, non aveva dipendenti, ma solo associati in partecipazione, come da regolari contratti registrati ed onorati, stipulati entrambi il 7/11/93. Il Fabbroni produceva quindi le dichiarazioni dei redditi degli associati, a dimostrazione che aveva sempre operato nel rispetto delle norme fiscali, e le dichiarazioni-quietanza degli associati, che ottennero il 25% ciascuno dei redditi dell'azienda.

In nessun modo, affermava il ricorrente, i contratti di associazione in partecipazione nascondevano dei rapporti di dipendenza, e la motivazione dell'associazione in partecipazione risiedeva nell'iniziale impossibilità di dar vita ad una società stante la titolarità della licenza rilasciata dalla Questura in capo al solo Fabbroni.

Dedotte prove orali, il Fabbroni chiedeva pertanto la revoca dell'ordinanza ingiunzione opposta, evocando in giudizio l'INPS.

L'INPS si costituiva in giudizio e resisteva all'opposizione, riportandosi agli accertamenti ispettivi svolti prima del giudizio, da cui era emersa la natura di rapporto di lavoro subordinato dei rapporti intercorsi tra il Fabbroni da un lato e la Zappacenere e il Cappelli dall'altro, sulla scorta delle dichiarazioni rese da costoro all'ispettore.

Ancora, deduceva l'Istituto che il contratto non prevedeva il rendiconto, non vi era predeterminazione dell'apporto da cui la nullità, e conseguente possibilità di accertare la natura di rapporto di lavoro subordinato.

Istruita la causa con assunzione di prove orali e produzione di documenti, all'udienza del 27/10/2000, previa breve discussione, veniva pronunciata sentenza con lettura pubblica del dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente affrontata la questione relativa alla nullità dei contratti di partecipazione stipulati da Alberto Fabbroni, associante, e Daniela Zappacenere e Fabrizio Cappelli, associati in partecipazione, eccezione fondata sulla mancanza di predeterminazione dell'apporto lavorativo dei due associati.

Entrambi i contratti, perfettamente uguali in ogni clausola, prevedono, all'art. 3), che l'associato apporterà esclusivamente il proprio lavoro, compreso quello manuale, senza alcuna subordinazione ed obbligo all'orario, ma nel contempo si impegna a prestare la propria opera in modo assiduo e continuativo, tenendo anche presente le esigenze connesse al buon andamento della gestione aziendale.

Il contratto non contiene quindi alcun concreto riferimento né al tipo di attività che l'associante era chiamato in concreto a svolgere in ragione dell'apporto offerto, né alla quantità di lavoro da effettuare. Tale ultimo aspetto assume, a parere del giudicante, rilievo decisivo nel senso dell'indeterminatezza ed indeterminabilità dell'apporto.

Invero, se mentre il tipo di mansioni demandate a ciascuno degli associati può essere desunto in via di interpretazione del contratto nel suo complesso, con particolare riferimento all'oggetto dell'impresa, costituito da una delegazione ACI con annessa agenzia di affari, per cui si può ritenere che l'attività lavorativa da prestare fosse quella usualmente svolta dall'impiegato di agenzie operanti nel settore automobilistico, non altrettanto dicasi per ciò che concerne la determinazione della quantità di lavoro. I termini del contratto non stabiliscono infatti né un minimo né un massimo della quantità di lavoro da prestare, né come tempo lavorativo - ore o giorni nella settimana, nel mese o nell'anno - e neppure come quantità di pratiche da accudire, e il riferimento alle esigenze connesse al buon andamento della gestione aziendale risulta essere eccessivamente generico: è evidente infatti che, essendo l’individuazione di tali esigenze rimessa all'associante in quanto gestore dell'impresa, restava sostanzialmente devoluta allo stesso associante l'individuazione del concreto ed effettivo apporto a carico degli associati, con l'eventualità che, a fronte di una partecipazione agli utili nella percentuale fissa del 25%, l'associante potesse richiedere di lavorare a ciascuno degli associati secondo estrema variabilità, senza, soprattutto, un "tetto" prestabilito, atto a garantire che la prestazione in cui l'apporto consisteva avesse comunque un limite al di là del quale l'associato non poteva essere tenuto a prestare attività e potesse legittimamente rifiutarsi. Né sarebbe appagante un riferimento implicito ad eventuali orari di apertura al pubblico dell'esercizio, peraltro non contemplati nel contratto, ben potendo configurarsi l'effettuazione di prestazioni lavorative in agenzia oltre le ore di apertura al pubblico.

Mette inoltre conto di rilevare che, pur prescrivendo l'art. 6 che l'associato dichiara di conoscere ed accettare la presenza di altri associati, non si fa menzione in nessuno dei due contratti della presenza dell'altro associato (i contratti con la Zappacenere e il Cappelli sono in pari data), né quindi del fatto che un'altra persona avrebbe egualmente apportato lavoro, con la conseguenza di rendere vieppiù fluido ed incerto l'aspetto quantitativo del lavoro.

Tale indeterminatezza dell'oggetto dei contratti di associazione in partecipazione con il Cappelli e La Zappacenere viene a contrastare, prima ancora che con il disposto dell'art. 2549 c.c., che prevede la partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa verso il corrispettivo di un determinato apporto, con il disposto generale dell'art. 1346 c.c., secondo cui l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile.

Deve quindi ritenersi che i contratti di associazione in partecipazione così come stipulati siano affetti da nullità insanabile.

Ciò nondimeno ritiene il giudicante che il rapporto intercorso tra il Fabbroni, da un lato, e la Zappacenere e il Cappelli, dall'altro, debba essere esaminato al fine di verificare se poi, nel suo concreto atteggiarsi, sia consistito in un rapporto di lavoro subordinato o in un rapporto di altra natura, eventualmente anche ad un rapporto di associazione in partecipazione valido, sorto sulla base di accordi verbali disciplinati in maniera sufficientemente particolareggiata anche l'aspetto deficitario nei contratti scritti (ed invero, per insegnamento giurisprudenziale qui condiviso, il contratto di cui all'art. 2549 c.c. non richiede la forma scritta neppure ad probationem - cfr., tra le altre, CASS. 4235/88).

Richiamando sinteticamente il consolidato insegnamento della Cassazione in tema di distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa e contratto di lavoro subordinato, secondo cui il primo implica l'obbligo del rendimento periodico dell'associante e l'esistenza del rischio di impresa per l'associato, mentre il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato (cfr., in tal senso, CASS. 1188/2000; CASS. 2175/96; CASS. 11222/98), e recependo tale insegnamento con specifico riguardo alla necessità di ricercare caso per caso la prevalenza dei tratti distintivi dell'uno o dell'altro tipo di rapporto sulla base delle sue concrete modalità di attuazione, ritiene il giudicante che, nella fattispecie oggetto del presente giudizio, non vi siano stati rapporti di associazione in partecipazione quanto, piuttosto, rapporti di lavoro subordinato, con il Fabbroni nella veste di datore e il Cappelli e la Zappacenere quali prestatori, a ciò conducendo l'esame delle emergenze probatorie in atti.

L'aspetto che viene maggiormente in rilievo è costituito dalla mancanza del rendiconto periodico da parte del Fabbroni alle altre due parti del rapporto.

In sede di interrogatorio il Fabbroni ha dichiarato che il rendiconto annuale veniva effettivamente predisposto, e che ogni due o tre mesi lui e i due associati si recavano dal commercialista che li aggiornava della situazione.

Sentiti come testi in giudizio sia il Cappelli che la Zappacenere hanno fatto riferimento all'esame del rendiconto, affermando in particolare il Cappelli che, alla fine dell'anno si recavano tutti e tre dal commercialista dell'azienda e, per fiducia reciproca, si limitavano ad esaminare il risultato finale del rendiconto, cioè gli utili risultanti a fine anno e quindi la successiva divisione secondo le percentuali stabilite. Lo stesso teste ha pure aggiunto che in occasione di questi accessi presso il commercialista sia lui che la Zappacenere ricevevano copia di tali rendiconti, quali risultati finali dei conteggi, e che un controllo più approfondito non era necessario dato che entrambi, lavorando in agenzia, provvedevano personalmente agli incassi e pertanto ne conoscevano l'entità.

Negli stessi termini la deposizione della Zappacenere, la quale ha dichiarato che l'andamento dell'attività era comunque sempre sotto i loro occhi.

Quei rendiconti di cui ha riferito il Cappelli sono stati poi acquisiti agli atti.

Osserva il giudicante che, ad una semplice lettura, risulta evidente che detti documenti non siano veri rendiconti, in quanto ivi non è riportato il conto della gestione dell'azienda con la specifica indicazione delle entrate e delle uscite ed i relativi titoli. Si dà meramente indicazione, in ciascuno di essi - che vanno dal 1992 al 1995 - del risultato dell'esercizio concluso, asseritamente verificato attraverso le risultanze delle scritture contabili approntate, delle quote di spettanza di ciascuno degli associati, in base alle percentuali di cui ai contratti, e degli acconti percepiti nell'anno dagli stessi.

Non sono stati invece prodotti i veri e propri rendiconti, che sarebbero stati redatti dal commercialista dell'azienda, e che pertanto, ragionando in base ad una massima di esperienza, avrebbero dovuto essere ancora disponibili, non essendo ancora decorsi i dieci anni dopo i quali generalmente i documenti contabili vengono cestinati.

I documenti in oggetto, peraltro privi di data certa, non sono quindi assolutamente idonei a dimostrare che rendimento di conto periodico da parte dell'associante vi sia stato. Ciò soprattutto alla luce delle dichiarazioni rese da entrambi i testi sopra citati in epoca anteriore al giudizio all'ispettore del lavoro Raniero Gentili, versate in atti.

Il Cappelli aveva dichiarato all'ispettore del lavoro di non prendere mai visione del rendiconto, né per discuterlo né per fare osservazioni, affermando inoltre di non essere in grado di dire se la somma percepita alla fine dell'anno 1992 corrispondesse effettivamente al 25% degli utili di quell'anno. A sua volta la Zappacenere riferì di non interessarsi della redazione del rendiconto e di non prenderne visione e, conseguentemente, di non essere in grado di dire se ciò che le era stato corrisposto corrispondesse o meno al 25% degli utili. La stessa volle peraltro precisare di non prendere mai visione del rendiconto perché aveva piena fiducia nell'operato del Fabbroni.

Orbene, se fosse stata vera la circostanza, riferita in giudizio, della periodica visione del rendiconto, inteso come risultato finale dell'esercizio, non si vede per quale motivo il Cappelli e la Zappacenere ne avrebbero taciuto all'ispettore del lavoro, laddove, peraltro, all'epoca di quelle dichiarazioni, risalenti al mese di ottobre del 1993, sarebbero stati già formati ben due dei prodotti "rendiconti", quello datato 27/3/93 e quello datato 24/3/92, firmati dal Cappelli e dalla Zappacenere, che danno atto dell'avvenuta lettura del rendiconto della gestione dell'anno precedente, verificato attraverso le risultanze delle scritture contabili, e dopo ampia discussione ripartiscono il risultato dell'esercizio.

Per quanto detto le dichiarazioni rese in giudizio non risultano essere attendibili né adeguatamente riscontrate e manca quindi prova affidabile del fatto che rendiconto periodico della gestione vi sia stato, come è richiesto in un effettivo rapporto di associazione in partecipazione, in attuazione di quell'obbligo imposto all'associante, atto a delimitare l'autonomia che di regola si accompagna alla titolarità esclusiva dell'impresa.

L'implicazione che se ne trae è che il rapporto intercorso tra il Fabbroni da un lato e il Cappelli e la Zappacenere, dall'altro, si atteggiò, in concreto, come rapporto di lavoro subordinato.

Non inficia tale conclusione l'asserita autonomia di cui godevano i due prestatori nell'organizzazione del lavoro, con riferimento al fatto, emerso in giudizio, che erano i due prestatori a decidere come alternarsi per le attività dell'ufficio e per gli orari di apertura al pubblico, e neppure il fatto che i due non ricevessero direttive dal Fabbroni: quanto al primo profilo, l'autonoma determinazione dei due prestatori in ordine all'alternanza non esclude la subordinazione, quale sottoposizione all'altrui potere organizzativo, in particolare perché l'esercizio dell'azienda postulava necessariamente il rispetto di determinati orari di apertura al pubblico, non stabiliti dai due lavoratori, e, dunque, l'irrinunciabile presenza di una persona in sede; quanto al secondo profilo, giova evidenziare che specifiche e reiterate direttive da parte del titolare in ordine alle pratiche da svolgere non erano poi necessarie, tenuto conto del fatto che la Zappacenere aveva già lavorato in un'altra delegazione ACI, come da lei affermato, ed era pertanto in grado di lavorare anche senza la direzione del Fabbroni, istruendo all'occorrenza anche il Cappelli (così dichiarò quest'ultimo all'ispettore).

Quanto, infine, alla garanzia della retribuzione, entrambi i testi ricevevano periodicamente degli acconti di L. 500.000, come da loro stessi riconosciuto, e tali pagamenti, proprio perché periodici e mai denegati dal titolare, costituivano idonea garanzia di guadagno per l'opera svolta, ponendo i prestatori al riparo dal rischio di impresa proprio dell'associazione in partecipazione.

Così qualificati, per tutto quanto detto, i rapporti oggetto di causa, fondata risulta la pretesa sanzionatoria dell'Istituto, in relazione ai fatti contestati. L'opposizione all'ordinanza - ingiunzione va perciò disattesa, con la conferma dell'impugnato provvedimento.

Le spese della lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Giudice, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta con ricorso depositato in data 30/10/1995 da Fabbroni Alberto,

- Rigetta l'opposizione e per l'effetto conferma l'ordinanza - ingiunzione opposta;

- Condanna l'opponente a rifondere all'INPS le spese della lite, liquidate in complessive L. 2.000.000, di cui Lire

1.000.000 per diritti e L. 1.000.000 per onorari, oltre IVA e CPA come per legge.

Macerata 27/10/2000

Il Giudice

D.ssa A. De Tommaso