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Confini tra associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato

L'associazione in partecipazione, disciplinata come noto dagli artt. 2549 2554 c.c., è un contratto per mezzo del quale “l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto” che può consistere, ovviamente, anche in una prestazione di lavoro.

La definizione sulla carta dell’istituto dell’associazione in partecipazione non parrebbe foriera di particolari problemi legati alla sua interpretazione, ma diversamente deve dirsi per ciò che riguarda il confine sostanziale che la divide dal rapporto di lavoro subordinato, confine a tutt’oggi per nulla definito o definibile con certezza.

In diverse occasioni la Suprema Corte è intervenuta nel tentativo di dirimere la querelle e di segnare un punto a favore della certezza, nel difficile compito di fornire un principio definitivo sull'argomento.


È stato affermato più volte che la distinzione fra contratto di associazione in partecipazione, che prevede l’apporto di una prestazione lavorativa da parte dell’associato, ed il contratto di lavoro con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, e la conseguente riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti, esige una indagine del giudice di merito, volta a cogliere la prevalenza, il cui accertamento, quando adeguatamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità: “… mentre il primo implica l’obbligo di rendiconto periodo dell’associante in relazione al potere dell’associato di controllo sulla gestione economica dell’impresa, e l’esistenza per quest'ultimo di un rischio di impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo convolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive ed istruzioni al cointeressato, altra alla salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato”. (Cass. Civ., sez. lav., 12 gennaio 2000).


Proprio in relazione alla decisione in commento, la Suprema Corte, chiamata ad intervenire nuovamente in materia, ha confermato i principi generali che la stessa aveva dettato in precedenza, senza tralasciare importanti riferimenti in relazione agli elementi che il giudice di merito deve considerare per collocare nella giusta luce i casi concreti che si presentano.

Di particolare rilevanza, infatti, è la censura che la Suprema Corte muove nei confronti della Corte d’Appello territoriale che, a suo dire, nel ritenere costituito tra le parti in causa un rapporto di lavoro subordinato ha trascurato nella sua indagine gli aspetti caratterizzanti il contratto di associazione in partecipazione, giudicando decisivi solo gli elementi propri della subordinazione, ma che comunque non possono essere ritenuti a priori estranei anche alla struttura dell'istituto dell’associazione.

La Suprema Corte prende spunto da questa considerazione per ricordare ancora una volta la prevalenza che il rapporto sostanziale deve avere nell'ambito dell'indagine rispetto al "nomen iuris” che le parti hanno assegnato al rapporto contrattuale che le vincola.

Può accadere che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, “sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione” (Corte di Cassazione n. 9264/2007). Il Giudice di merito, dunque, investito del compito di fornire l'esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve riconoscere prevalenza al comportamento sostanziale che le parti hanno tenuto nell'attuazione del rapporto stesso, e non considerare, esclusivamente o come punto di partenza dell'indagine, la denominazione utilizzata al momento della conclusione del contratto.

La qualificazione del rapporto adottata in sede di conclusione del contratto, dunque, deve essere considerata alla stregua di uno dei tanti elementi valutabili dal giudice di merito, che deve servirsene allo scopo di comprendere prima o definire poi l’esatta volontà delle parti, e naturalmente con essa il vero rapporto che hanno voluto instaurare.

La Corte ha avuto anche modo di affermare che, tuttavia, il “nomen iuris”, adottato al momento della conclusione del contratto, pur non essendo decisivo, non è irrilevante e pertanto, qualora a fronte della rivendicata natura subordinata del rapporto venga dedotta e documentalmente provata l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, “l’accertamento del giudice di merito deve essere molto rigoroso (potendo anche un associato essere assoggettato a direttive ed istruzioni nonché ad una attività di coordinamento latamente organizzativa) e non trascurare nell’indagine aspetti sicuramente riferibili all’uno o all’altro tipo di rapporto, quali, per un verso, l’assunzione di un rischio economico e l’approvazione di rendiconti e, per altro verso, l’effettiva e provata soggezione al potere disciplinare del datore di lavoro” (in tal senso Cass. 7 ottobre 2004 n. 20002).

È proprio partendo da questa considerazione che la Corte prende spunto per operare una precisazione che nelle stesse intenzioni dei giudici di legittimità vorrebbe diventare un’asserzione di principio di portata generale, applicabile in ogni caso si sia chiamati ad accertare se una prestazione sia effettuata in presenza, o meno, di un vincolo di subordinazione (ad esempio, in presenza di rapporti lavorativi di soci d’opera, di soci di cooperativa, e più in generale anche di contratti di lavoro autonomo in cui la prestazione lavorativa abbia tratti per molti profili assimilabili a quelli del lavoro subordinato).

Il principio di diritto che la Suprema Corte propone è il seguente: “Il riferimento al nomen iuris dato dalle parti al negozio, risulta di maggiore utilità rispetto alle altre in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due (o più) figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili, non potendosi negare che quando la volontà negoziale si è espressa in modo libero (in ragione della situazione in cui versano le parti al momento della dichiarazione) nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse. La valutazione del documento negoziale, tanto più rilevante quanto più labili appaiono i confini tra le figure contrattuali astrattamente configurabili, non può, dunque, non assumere una incidenza decisoria anche allorquando tra dette figure vi sia quella del rapporto di lavoro subordinato”.

Con riferimento al caso considerato dalla sentenza in esame, ed alla luce del principio generale di diritto appena enunciato, la Suprema Corte non poteva far altro che ritenere fondati i motivi di doglianza presentati dalla società parte del procedimento, che nel ricorso lamentava come la Corte territoriale non avesse tenuto conto della presenza di un contratto regolarmente stipulato tra le parti “nel quale è stato chiaramente precisato che le parti intendevano porre in essere un rapporto di associazione in partecipazione, disciplinandolo come tale, sia pure al limitato fine di verificare se, nella concreta attuazione del rapporto, la regolamentazione prevista nel negozio ha trovato una reale corrispondenza”.

La Corte non si limita a tale assunto, ma precisa che le difficoltà di individuare tali differenze emergono anche sotto altri versanti.

L’obbligo dell’associato di effettuare l’apporto promesso trova, per opinione condivisa, il suo fondamento nella causa stessa del contratto e non sono richieste a tale fine forme di alcun genere, ritenendosi sufficiente la prova dell’apporto nell’impresa dell’associato e la dimostrazione specifica della partecipazione agli utili.
Ugualmente, la Corte ricorda che gli elementi più significativi ai fini della qualificazione del contratto di associazione in partecipazione sono l’assunzione da parte dell’associato di un rischio economico, oltre alla non necessaria corrispondenza tra apporto lavorativo e corrispettivo pattuito, nonché un controllo sulla gestione dell’impresa spettante all’associante.

Anche sulla scorta di quanto affermato in ultimo, la Corte si propone l’intento di fissare un’ulteriore principio di diritto,secondo il quale “nel contratto di associazione di cui all’art. 2549 c.c., non ostandovi alcuna incompatibilità con il suddetto tipo negoziale, la partecipazione agli utili ed alle perdite da parte dell’associato può tradursi, per quanto attiene ai primi, nella partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quelli di singoli affari, sicché sotto tale versante non assume alcun rilievo ai fini qualificatori il riferimento delle parti contrattuali agli utili dell’impresa o viceversa ai ricavi per singoli affari; e per quanto attiene alle seconde in ragione del rischio proprio della causale associativa del rapporto contrattuale in un corrispettivo volto a prevedere, oltre alla cointeressenza negli utili, anche una quota fissa (da riconoscersi in ogni caso all’associato), di entità non compensativa della prestazione lavorativa e, comunque, non adeguata rispetto ai criteri parametrici di cui all’art. 36 della Costituzione”.

Per dirla con le stesse parole che utilizza la Corte, il principio enunciato rappresenta un rilevante criterio differenziale tra le due figure contrattuali, “nella misura in cui rimarca una diversa omogeneità di interessi tra associato e lavoratore subordinato, in ragione di un distinto e meno diretto coinvolgimento nelle fortune dell’impresa del secondo rispetto al primo, in considerazione principalmente delle sue ricadute in termini economici”.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza n. 9264 del 18 aprile 2007

(Presidente Sciarelli – Relatore Vidiri)

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 2 gennaio 2002 la s.r.l. Autoespert conveniva l’INPS avanti al Tribunale di Cremona per sentire dichiarare che tra la società e R.G. era realmente intercorso un rapporto di associazione in partecipazione e non di lavoro subordinato, per cui nulla era dovuto all’INPS in relazione al verbale di accertamento del 4 settembre 2000 del servizio ispettivo dell’Istituto, tanto più che il ricorso era stato accolto dal Comitato regionale di detto Istituto ed inopinatamente disatteso dal direttore della sede di Cremona. Lamentava la società in proposito che era stato violato l’art. 48 della legge n. 88 del 1989 e che, quindi, il provvedimento del Comitato regionale di disconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, per essere stato sospeso da organo privo della necessaria competenza, doveva essere considerato in ogni caso definitivo.

Dopo la costituzione dell’INPS e dopo che era stata emessa cartella esattoriale per cui i giudizi (quello iniziale e quello di opposizione alla cartella, emessa dalla s.p.a. Loseri) erano stati riuniti, il primo giudice respinta l’eccezione attinente all’art. 48 della suddetta legge n. 88 del 1989, accoglieva i ricorsi reputando provata l’associazione in partecipazione.

A seguito di gravame dell’INPS, che ribadiva la natura subordinata del rapporto di lavoro in contestazione e di appello incidentale della società, che lamentava di contro il mancato accoglimento dell’eccezione preliminare di definitività del provvedimento di annullamento del verbale ispettivo ad opera del Comitato regionale, la Corte di appello di Brescia con sentenza del 27 agosto 2004, in riforma della impugnata sentenza, rigettava le domande proposte dalla società, che condannava anche al pagamento delle spese di ambo i gradi del giudizio.

Nel pervenire a tale conclusione osservava la Corte territoriale che risultava infondata l’eccezione con la quale la società aveva lamentato che il direttore Provinciale della sede di Cremona dell’INPS non aveva dato esecuzione alla delibera di accoglimento della sua istanza da parte del Comitato regionale competente ex art. 43 lettera e) della legge n. 88 del 1989, perché tale provvedimento e l’esito del procedimento amministrativo non potevano impedire l’accertamento dei diritti e degli obblighi scaturenti dal rapporto che si era instaurato tra la società ed il R.G.. Nel merito osservava poi che, nel caso di specie, il suddetto rapporto non poteva reputarsi di associazione in partecipazione in quanto i corrispettivi del G. non erano computati sugli utili ma sui ricavi della società, in capo all’associato non vi era alcuna alea atteso che la società garantiva un fisso annuale predeterminato e non ancorato all’andamento nell’impresa, e che le risultanze istruttorie attestavano l’esistenza di un obbligo di orario, seppure flessibile, del G. e una continuazione da parte di quest’ultimo della stessa attività di meccanico diretto dall’amministratore della società pur dopo la modifica del contratto con la Autoespert. Avverso tale sentenza la s. r. l. Autoespert propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati anche con memoria.

Resiste con controricorso l’INPS.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 48 della legge n. 88 del 1989, violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., deducendo che il giudice d’appello non ha tenuto conto che il provvedimento del comitato di cui all’art. 1 del d.p.r. n. 639 del 1970 non poteva essere sospeso ‑ come era avvenuto ‑ dal direttore di sede dell’ INPS ma solo dal direttore generale. Ne conseguiva che il provvedimento del suddetto Comitato, che era stato chiamato a decidere sulla sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, per non essere stato validamente annullato, doveva essere eseguito.

Con il secondo motivo la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2549 e ss. c.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e più in generale delle norme in tema di onere della prova nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Più specificatamente lamenta che la Corte territoriale non ha correttamente valutato il materiale probatorio e non ha vagliato in maniera esauriente tutti gli elementi che valgono a differenziare l’associazione in partecipazione dal rapporto di lavoro subordinato, non dando tra l’altro alcun valore al contratto sottoscritto dalle parti del suddetto contratto (nel quale queste dichiaravano di porre in essere un rapporto di associazione in partecipazione) né all’assenza di qualsiasi subordinazione intesa quale sottoposizione al potere gerarchico del datore di lavoro, e non assegnando ancora la dovuta rilevanza né al potere del G. di prendere visione dei rendiconti della società né ai margini di aleatorietà del corrispettivo pattuito per la prestazione dell’attività lavorativa.

Con il terzo motivo la società lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. perché, pur controvertendosi unicamente sulla sussistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, la Corte territoriale nel qualificare il rapporto in contestazione come rapporto di lavoro subordinato, sebbene non vi fosse una esplicita domanda in tali sensi, aveva contraddetto il principio della corrispondenza tra chiesto e giudicato.

2. Il ricorso va accolto per quanto di ragione.

3. Ed invero, il primo motivo del ricorso non può trovare ingresso in questa sede atteso che, come sul punto ha correttamente evidenziato la sentenza impugnata, ogni accertamento in sede amministrativa sulla configurabilità di un diritto non può precludere il potere del giudice di accertare ‑ allorquando venga contestato in sede giudiziaria una domanda dell’INPS ‑ la sussistenza o meno del (preteso) diritto azionato, stante l’autonomia del procedimento amministrativo rispetto a quello giudiziario per l’accertamento dei fatti e dei diritti controversi. Ed ugualmente risulta privo di fondamento il terzo motivo del ricorso in quanto non può essere denunziato un vizio di ultrapetizione o di extrapetizione in una controversia, quale quella in esame, il cui oggetto attiene proprio alla sussistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato, ai fini di accertare la sussistenza o meno di un obbligo contributivo della società e, conseguentemente, di un suo inadempimento.

4. Fondato risulta di contro il secondo motivo di ricorso.

4.1. L’associazione in partecipazione, disciplinata dal codice civile agli artt. 2549‑2554 c.c., è un contratto con il quale l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto che può consistere anche in una prestazione di lavoro.

4.2. Sebbene in astratto l’associazione in partecipazione appaia agevolmente distinguibile dal rapporto di lavoro subordinato, nella realtà fattuale la linea di demarcazione tra le due figure si presenta tutt’altro che certa.

4.3. Nell’individuare tale linea si è poi affermato che, in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige una indagine del giudice di merito il cui accertamento se adeguatamente e correttamente motivato è incensurabile in sede di legittimità), volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti. In tale indagine deve tenersi conto in particolare che mentre il primo contratto implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione – più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato all’impresa (così Cass. 16 febbraio1989 n. 927)

4.4. Orbene, la Corte territoriale nel ritenere costituito tra il G. e la s.r.l. Autoespert un rapporto di lavoro subordinato ha però, da un lato, trascurato nell’indagine da essa sviluppata aspetti riferibili al contratto di associazione in partecipazione mentre ha considerato come decisivi elementi propri della subordinazione ma di certo non estranei anche all’associazione.

4.5. Sotto il primo versante va messo in luce che allorquando le parti che, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve a tal fine attribuire valore prevalente rispetto al "nomen iuris" adoperato in sede di conclusione del contratto ‑al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso.

Il nomen iuris, nei limiti sopra specificati, risulta quindi soltanto uno degli elementi da valutare dal giudice di merito al fine di individuare l’esatta volontà delle parti e con essa il vero rapporto che con esso hanno voluto instaurare gli autori negoziali.

4.6. Proprio in un caso che presenta profili analogici con quello in esame questa Corte ha affermato che la qualificazione formale del rapporto effettuata dalle parti al momento della conclusione del contratto, pur non essendo decisiva, non è tuttavia irrilevante e pertanto, qualora a fronte della rivendicata natura subordinata del rapporto venga dedotta e documentalmente provata l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, l’accertamento del giudice di merito deve essere molto rigoroso (potendo anche un associato essere assoggettato a direttive ed istruzioni nonché ad una attività di coordinamento latamente organizzativa) e non trascurare nell’indagine aspetti sicuramente riferibili all’uno o all’altro tipo di rapporto, quali, per un verso, l’assunzione di un rischio economico e l’approvazione di rendiconti e, per altro verso, l’effettiva e provata soggezione al potere disciplinare del datore di lavoro (cfr. in tali sensi Cass. 7 ottobre 2004 n. 20002).

4.7. Tale dictum va condiviso anche se una puntualizzazione di esso si mostra opportuna per farne un principio di portata generale, valido cioè in ogni caso in cui, nell’ambito dell’ampia categoria dei rapporti aventi ad oggetto una prestazione lavorativa, debba individuarsi se detta prestazione venga prestata o meno con vincolo di subordinazione(il che va accertato, ad esempio, in presenza di rapporti lavorativi di soci d’opera, di soci di cooperativa, e più in generale anche di contratti di lavoro autonomo in cui la prestazione lavorativa abbia tratti per molti profili assimilabili a quelli del lavoro subordinato).

4.8.Alla stregua di quanto sinora detto, può fissarsi il seguente principio di diritto – di generale portata applicativa e di frequente operatività nell’area giuslavoristica e che il giudice di rinvio dovrà, pertanto, tenere presente nella rivalutazione dell’intero materiale probatorio – secondo cui <Il riferimento al nomen iuris dato dalle parti al negozio, risulta di maggiore utilità rispetto alle altre ‑ in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due (o più) figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili, non potendosi negare che quando la volontà negoziale si è espressa in modo libero (in ragione della situazione in cui versano le parti al momento della dichiarazione) nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse. La valutazione del documento negoziale, tanto più rilevante quanto più labili appaiono i confini tra le figure contrattuali astrattamente configurabili, non può, dunque, non assumere una incidenza decisoria anche allorquando tra dette figure vi sia quella del rapporto di lavoro subordinato>.

4.9. Risulta, pertanto, fondata la doglianza della società che nel ricorso lamenta testualmente che <la Corte bresciana non tiene minimamente conto dell’esistenza di un contratto, nel quale è stato chiaramente precisato che le parti intendevano porre in essere un rapporto di associazione in partecipazione, disciplinandolo come tale, sia pure al limitato fine di verificare se, nella concreta attuazione del rapporto, la regolamentazione prevista nel negozio ha trovato una reale corrispondenza>.

5. Ma la difficoltà di individuare, come detto, il discrimine tra associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato, che imponeva una più estesa e compiuta valutazione del materiale probatorio, emerge anche sotto altri versanti.

5.1. E’ opinione da tutti condivisa che l’obbligo dell’associato di effettuare l’apporto promesso trovi il suo fondamento nella causa del contratto di scambio, necessaria al finanziamento di attività economiche e di impresa, e che non sono richieste a tale fine forme di alcun genere, essendo sufficienti la prova dell’apporto nell’impresa dell’associato e la dimostrazione specifica della partecipazione agli utili della stessa, dovendo risultare presenti in contratto i termini sinallagmatici del rapporto.

Ed è di generale condivisione anche l’assunto che elementi particolarmente significativi, ai fini della qualificazione del contratto di associazione in partecipazione, sono l’assunzione da parte dell’associato di un rischio economico e di una alea sulla non necessaria corrispondenza tra apporto lavorativo e corrispettivo pattuito, nonché un controllo ‑ seppure realizzabile con modalità diverse sulla gestione dell’impresa spettante all’associante sempre da parte dell’associato, mentre di minore incidenza appare il potere d’impartire direttive ed istruzioni allo associato, spettando un tale potere anche al datore di lavoro, seppure come elemento connaturato ‑ unitamente al potere sanzionatorio ‑ all’esistenza della configurabilità della subordinazione.

5.2. Ciò porta a fissare un ulteriore principio di diritto, pure del quale dovrà tenere conto il giudice di rinvio, secondo cui <Nel contratto di associazione di cui all’art. 2549 c.c., non ostandovi alcuna incompatibilità con il suddetto tipo negoziale, la partecipazione agli utili ed alle perdite da parte dell’associato può tradursi, per quanto attiene ai primi, nella partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quelli di singoli affari, sicché sotto tale versante non assume alcun rilievo ai fini qualificatori il riferimento delle parti contrattuali agli utili dell’impresa o viceversa ai ricavi per singoli affari; e per quanto attiene alle seconde ‑ in ragione del rischio proprio della causale associativa del rapporto contrattuale ‑ in un corrispettivo volto a prevedere, oltre alla cointeressenza negli utili, anche una quota fissa (da riconoscersi in ogni caso all’associato), di entità non compensativa della prestazione lavorativa e, comunque, non adeguata rispetto ai criteri parametrici di cui all’art. 36 della Costituzione>.

5.3. A ben vedere, il principio sopra enunciato finisce per rappresentare un rilevante criterio differenziale tra le due figure contrattuali dell’associato in partecipazione e del rapporto di lavoro subordinato, nella misura in cui rimarca una diversa omogeneità di interessi tra associato e lavoratore subordinato, in ragione di un distinto e meno diretto coinvolgimento nelle fortune dell’impresa del secondo rispetto al primo, in considerazione principalmente delle sue ricadute in termini economici.

5.4. Pertanto, anche su tale punto appare utile per segnalare la necessità di una (nuova) valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale delle parti ‑ la censura di cui al secondo motivo di ricorso. Ed invero, la società, dopo avere evidenziato come la causa del contratto di associazione in partecipazione presenti caratteri distintivi evidenti essendo <contraddistinto da una posizione non paritaria delle parti contraenti e da una non piena coincidenza di interessi>, rimarca poi, al fine di attestare la presenza di un rischio nel contratto stipulato, come la posizione del G. sia stata quella dell’associato in partecipazione nonostante il conguaglio sia stato di fatto positivo perché tutto ciò "non consente ... di affermare che l’associato non fosse esposto ad alcun rischio e non v’è motivo di dubitare che, se l’andamento delle vendite(al quale era ragguagliato il compenso) fosse stato sfavorevole e tale da condurre ad una quantificazione inferiore agli acconti corrisposti, il conguaglio non sarebbe stato negativo".

6. Corollario di quanto sinora detto è che il ricorso va accolto per quanto di ragione.

7. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la sentenza impugnata va cassata e la causa va rimessa ad un diverso giudice, che si designa nella Corte d’appello di Venezia, che procederà ad un nuovo esame della controversia facendo applicazione dei principi sopra enunciati.

8. Al giudice di rinvio va rimessa anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione. cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Venezia anche per le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma il 14 febbraio 2007.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 18 aprile 2007.