Torna a Massime e Sentenze  Torna a: Artigiani e Commercianti

Sentenza Corte di Cassazione, sez. lav. n° 11332 del 9 ottobre 1999

Titolo per la partecipazione all'impresa familiare è la prestazione, in modo continuativo, dell'attività di lavoro nella famiglia. Tale attività si traduce nel diritto ad una quota di partecipazione agli utili, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell'azienda, in proporzione alla quantità e alla qualità di lavoro prestato; tale quota, pertanto, non può che essere determinata in relazione agli utili non ripartiti al momento della cessazione nella prestazione lavorativa o della alienazione dell'azienda, nonché in relazione all'accrescimento della produttività dell'impresa, in proporzione all'apporto dell'attività del partecipante.

NOTA

La controversia da cui trae origine la sentenza che ora si commenta coinvolge due delle questioni più rilevanti che possono sorgere con riferimento alla particolare fattispecie del lavoro prestato all'interno delle cosiddette imprese familiari, la cui disciplina è contenuta nell'articolo 230 bis del codice civile, introdotto con la riforma del 1975 del diritto di famiglia. Da un lato e innanzitutto, sorge il problema di accertare in presenza di quali presupposti si possa ritenere sussistente un'impresa familiare; dall'altro lato, e una volta chiarito che si versa in tale ambito, nasce la questione della determinazione delle somme dovute al familiare quale corrispettivo del lavoro prestato.

La Cassazione si trova di fronte a una sentenza del Tribunale la quale aveva ritenuto che la collaborazione prestata dalla nuora nell'azienda dei suoceri, in assenza della prova di un negozio costitutivo di un diverso rapporto (quale ad esempio del rapporto di lavoro subordinato), faceva presumere la partecipazione della nuora stessa a un'impresa familiare. I suoceri ricorrevano in Cassazione sostenendo che nel caso di specie mancavano i requisiti necessari alla configurazione di tale fattispecie, dal momento che la collaborazione non era stata né costante né continuativa, quanto piuttosto sporadica e saltuaria, oltre al fatto che mancavano i vincoli solidaristici e affettivi necessari per la configurazione di un'impresa familiare.

La Suprema Corte conferma però, su tale punto, la sentenza del giudice di secondo grado ritenendo che, anche alla luce della giurisprudenza prevalente, sia "sufficiente ad integrare la fattispecie dell'impresa familiare il fatto giuridico dell'esercizio continuativo di attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una manifestazione di volontà" (Cass. n° 4650 del 16.4.1992).

Fatto giuridico che, aggiunge la Corte, è pur sempre volontario, avendo i suoceri comunque accettato la collaborazione della nuora. Per ciò che attiene, invece, ai criteri da utilizzare al fine di determinare le somme dovute al familiare lavoratore, che formavano oggetto del secondo motivo di ricorso, è necessario premettere che, prima del 1975, che ha appunto introdotto l'articolo 230 bis, sulle prestazioni lavorative effettuate dai familiari nell'ambito dell'impresa gestita, generalmente, dal capo famiglia, gravava una presunzione di assoluta gratuità. L'articolo 230 bis, invece, prevede ora che il familiare, salvo che sia configurabile un diverso rapporto, ossia salva la prova, ad esempio, che si tratti di un vero e proprio lavoro subordinato, ha diritto: al mantenimento (secondo la condizione patrimoniale della famiglia), alla partecipazione agli utili, ai beni con questi acquistati, nonché agli incrementi dell'azienda, e tutto ciò in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

La Suprema Corte cassa la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto equo far riferimento ai parametri della retribuzione per lavoro subordinato, ravvisando una contraddizione: il giudice ha posto alla base del calcolo delle somme dovute la retribuzione dovuta ai prestatori di lavoro subordinato, il cui ammontare, però, "prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, ai quali invece è commisurato il diritto di partecipazione del componente dell'impresa familiare": Un'ultima considerazione circa le somme dovute ai lavoratori nell'ambito dell'impresa familiare: questi rientrano, infatti, nell'ambito dei lavoratori cosiddetti parasubordinati, previsti dall'art. 409 n°3 del c.p.c., per i quali la giurisprudenza costante ha escluso l'applicabilità dell'articolo 36 della Costituzione.